Nel dì dell’11 di maggio
nell’anno del Signore 1588
riporta
il codice Urbinate Vaticano
dell’ infelice avvenimento
di uomini crudeli
e delle loro insane gesta.
Sto per raccontarvi
infatti
di Assan Agà
pirata sanguinario
il capo dei suddetti ceffi
che per mantenere
di terrore il clima alto
con numero sette
di galee algerine
assalì
sulla romana costa
il territorio di Civitas Patrica.
Pirati
e pure brutti e infami
che miravano a reprimere
i giovani entusiasmi popolari
di chi d’allegrezza esultava
per ciò che sotto sotto
da un po’ di tempo
da quelle parti
si vociferava.
Imminente
a quanto pare era
la costruzione della flotta pontificia
ma mala fu la loro fede
che approfittando del contesto
agirono ancor prima che il Lercari
luogotenente generale della squadra
fosse pronto per salpare.
La storia narra infatti
che nella notte tra l’8 e il 9 maggio
nell’anno del Signore 1588
Assan
il sanguinario
insieme a 200 pirati algerini
approdò sulla costa della Roma ignara
che senza tutela alcuna
nell’oscurità
serena
riposava.
Per compiere così
il vile misfatto
chi di professione
faceva scempio e prepotenza
di soppiatto
violentò il cuore caldo
della terra ferma.
Coperti dalla notte
nel borgo addormentato
giunsero i vili malfattori
e grande fu il dolore e lo sgomento
per quei pochi levatisi in piè
per contrastare
il nero delle gesta
dei suddetti ceffi.
E mentre i paladini
perfino nella chiesa
morivano trucidati
ignobili furono le brutture
che si contarono
per mano dei pirati.
Senza pietà alcuna
più o meno centocinque
tra maschi e femmine catturarono
rubando gioia e vita
al borgo deturpato.
Trentanove gli uomini
e ventinove donne
ma anche trentacinque
tra i lavoratori stagionali
furono coloro i quali
mai più fecero ritorno.
Tacendo con tenacia
sull’infame sorte
che invece li attendeva
imbastirono i pirati
ulteriori inganni
ai sudditi del Borghese
il principe
adesso sventurati.
E come se fosse
tutto quanto vero
“Su, lungo il Tevere…”
gridavano mentendo
“alle vigne della grande Roma”
magnifico il luogo
dove “dicevano”
li avrebbero portati
come se fossero
amici del Giulio
er Sommo Pontefice
e non invece
i miseri qual’erano!
E fu così
dopo l’atroce lutto
che fu anticipata l’ultimazione
del sistema difensivo lungo le coste.
Torri
che sulla azzurra riva
s’alzarono di gran fretta
come quella del Vajanico
che da quel dì
il nome diede
alla terra che
di pianto sabbia e vento
tutt’intorno si estendeva.
*********
Ma dopo questa novella
di morte
e atroce sofferenza
desidero per lor signori
narrare quella a lieto fine
della dolce giovinetta
che quel dì
del triste maggio
dal bosco fu salvata.
Lei che con la natura
ci andava assai d’accordo
meglio sicuramente
di qualsiasi altra creatura
aveva instaurato
nel corso dei suoi anni
un magico legame
che molti non comprendevano
ma che le fu fatale.
Sorridendo canticchiava
quando dal suo amato bosco
alla dimora ritornava
il buio intanto intorno
nel giorno s’infiltrava
mentre gli abbondanti frutti
dalla veste a mo’ di conca
correndo pensierosa
sulla strada seminava.
Aveva fatto tardi
e l’ora era ormai giunta
di andare a riposare
prima che il giorno ritornasse
coi suoi gravosi affanni.
Posò la frutta ai cesti
e lesta andò a dormire
ma quando il sonno
si fece dolce sogno
fu subito svegliata
da grida spaventose
e pianti soffocati.
E intanto il cuore suo
di botto le pareva
di perdere dal petto
impazzito martellava
e non voleva smettere.
Con gli occhi attraversati
da lampi di terrore
il vecchio genitore
irrompeva nella stanza
spingendola di fuori
sul carro nella stalla.
La sera
che solo poco prima
splendida faceva culla
a stelle e a grilli canterini
si tramutò in inferno
mentre urla e lampi interpretavano
il canto disumano
della signora nera.
E il tempo
s’arrestò così sulla paura
e intanto tutt’ intorno
la vita lottava con la morte
materializzando leggende paurose
che gli anziani narravano di notte.
Pianti disperati
che le spaccavano la mente
come le voci stridule
che urlavano l’oscura lingua
che d’improvviso le fu
pericolosamente accanto.
Impietrita la donzella
sentì muovere il carretto
ma non osò guardare
limitandosi a nascondersi
tra stracci polverosi e il fieno
che intorno a sé trovava.
Ma quando il forestiero
s’ arrestò improvvisamente
ardita la fanciulla
in cerca di un rifugio
in un lampo saltò giù.
Fortuna volle che
il bosco fosse proprio accanto
complice e amico vero
le diede il suo sostegno.
E mentre lei correva
più veloce di una lepre
sentiva alle sue spalle
incomprensibili parole
che parevano acchiapparla.
Infatti poco dopo
i bruti la raggiunsero
ma lei riuscì a scappare
e nonostante i due
coi rinforzi raddoppiarono
il bosco la coprì
e nessuno più la vide.
In quel silenzio insano
esausta precipitò
nel sonno che allontana
ma quando si svegliò
piangendo disperata
pensò alla sua famiglia
e mentre rifletteva
su cosa era meglio fare
intanto camminava
e al borgo ritornava.
Non un solo gemito
arrivava dalle mura
che mai come in quel momento
facevano così tanta paura
ma quando varcò l’arco
che al borgo conduceva
la vista s’offuscò di gocce
sulle spoglie martoriate
che giacevano a casaccio
lungo la rossa polvere
ai margini delle strade.
D’un tratto la sua voce
sentì che urlava la sua pena
mentre correndo disperata
cercava i suoi amati
ma non trovò nessuno
nemmeno i loro corpi
e ritornò nel bosco
col cuore nelle mani.
Quando durò il tempo
del suo vivere selvaggio
nessuno mai lo seppe
ma di certo fino a quando
il bello e forte principe
dell’ Ardea lì vicina
durante una battuta
si spinse su una preda.
Infatti a quanto pare
un rovo o un ramo secco
davanti al suo destriero
gli fece perdere il cinghiale
e mentre i suoi amici
lo burlavano ridendo
il principe incrociò
la donzella spaurita.
Un po’ perché d’indole gentile
un po’ perché la trovava bella
fatto sta che il giovane
le porse la sua mano
ma lei con un balzo a terra
si diede alla gran fuga
e siccome il bosco
era amico per davvero
i cespugli grandi mise
per rallentar la corsa
avvicinando in tale modo
il nobile straniero.
Quando in quegli occhi belli
lesse la paura che albergava
non perse tempo il principe
a mostrare il vuoto delle mani
ma lei non gli diede credito
e guardandosi intorno
acchiappò un frutto grosso
e glielo tirò addosso.
La mira non era scelta
e lui afferrò il pomo
e mentre rideva divertito
gli diede pure un morso.
Interdetta la fanciulla
non sapeva più cosa pensare
forse non era l’uomo nero
che aveva temuto d’incontrare
e intanto intorno a sé
l’aria si colmava
di una dolce melodia
che dopo tanto tempo
a lei si rivolgeva:
“Buon giorno dolce donzella
sono il principe del paese qua vicino
posso avere l’onore
di venire a conoscenza
del vostro meraviglioso nome?”
Confusa la giovanetta
non sapeva cosa dire
troppo era stato il tempo
che aveva dialogato solamente
con la natura madre
“Non lo so…”
rispose un po’ smarrita
mentre più di un fil di voce
dalla sua vermiglia bocca
proprio non usciva.
Ma adesso era il principe
ad essere perplesso
e associando i fatti
al desiderio del suo cuore
decise in quel momento
di chiamarla Pometina
e non ci volle molto
tra sorrisi e angeliche parole
a convincere la donzella
a seguirlo nel suo regno.
E non fu nemmeno strano
che di lì a qualche giorno
il rampollo s’innamorò perdutamente
della gentile creatura
che era forte e bella
di sicuro come nessuna.
E fu così che Pometina
che sempre era stata buona
e gentile in ogni circostanza
da regina del bosco quale era
diventò regina per davvero.
E tante furono le stagioni
che videro il suo amabile sorriso
fin quando ormai anziana e stanca
chiese al principe consorte
di andare per sempre a riposare
tra il verde del suo bosco.
Narra la storia infatti
che sulla terra che la coprì
di lì a qualche tempo
spuntò un tenero germoglio
che presto si fece albero
di dolci e succosi frutti
capaci di sfamare
chi gli passava sotto.
E tanti furono i viandanti
amanti della natura
che da quel dì
sotto alla sua ombra
trovarono nutrimento
Amore
e tanta
tanta frescura.
tiziana mignosa giugno duemilaundici
Note: scritto per l’associazione Tyrrhenum in occasione della festa medievale nel giugno duemilaundici
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